Il teatro per tornare in Africa. Parla Mandiaye Ndiaye, attore senegalese delle “Albe”


Lo si è visto in scena nei panni di Oberon nel “sogno” di Shakespeare o di padre Ubu nei Polacchi, indifferentemente saltare dall’italiano alla lingua wolof al dialetto romagnolo. Da quindici anni Mandiaye Ndiaye incarna l’anima africana della compagnia ravennate Teatro delle Albe. Con la sua terra madre, il Senegal, ha un legame che proprio il teatro gli ha permesso di coltivare, un legame che oggi lo porta a progettare una casa del teatro in un villaggio contadino dove è già nata una trasposizione del Pluto di Aristofane.

Cosa vi ha spinto a lavorare in Senegal?

È un modo di portare ricchezza in Africa. Come Albe, come compagnia afro-romagnola, ci siamo detti: invece che portare delle pizzerie, o delle macchine, perché non portare il teatro, per creare un ulteriore meticciato fra Ravenna e il Senegal. L’idea nostra è quella di creare un teatro in cui produrre là degli spettacoli e portarli in Europa, e viceversa. Abbiamo deciso di lavorare dove sono nato, a Dioll Kadd, un piccolo villaggio contadino, molto povero, in cui c’è il grande problema dell’acqua. È da posti come quello che partono le grandi migrazioni, verso Dakar ma anche verso Lido Adriano. La gente lavora nei campi e raccoglie solo tre mesi all’anno; a volte si raccoglie e a volte non si raccoglie. È un contesto in cui abbiamo pensato possa rivivere oggi un testo come il Pluto, un testo sull’ingiustizia. Abbiamo coinvolto l’intero villaggio e abbiamo trovato trenta ragazzi per mettere in scena Aristofane in lingua wolof e raccontare allo stesso tempo la storia del villaggio. L’accoglienza è stata buona, perché attraverso il Pluto parlavamo dei problemi del villaggio e gli abitanti portavano in scena le loro vite. Loro sono contadini che di giorno lavoravano i campi e al teatro potevano dedicarsi solo di sera. A Dioll Kadd sta nascendo la casa del teatro. C’è uno spazio, ci sono stanze in cui la gente può anche dormire, e poi provare. Stiamo cercando fondi da investire là. È difficile, ma ci vuole un investimento economico per migliorare la qualità della vita. C’è bisogno dell’acqua. Abbiamo scavato un pozzo, per l’acqua da bere. Ma bisognerebbe scavare altri pozzi, per riuscire a irrigare i campi.

Quando sei partito, cosa cercavi in Italia?

La mia storia non è diversa da quella di molti altri. Quando sono partito il mio obiettivo era quello di poter guadagnare tanto, trovare tanta ricchezza da poter riportare in Senegal. Io vengo da Guédiawaye, un quartiere nella periferia di Dakar dove vivono quasi un milione di abitanti, un quartiere dove ci sono tutte le difficoltà delle bidonville, un pezzo di città costituito dai villaggi che si spostano verso il centro, gente che scappa da situazioni difficili, dove c’è poca speranza, alla ricerca di benessere, di cibo. Nella periferia non sei né in un villaggio né in una città, sei sospeso. Mi ricordo che giocavamo sempre a calcio. Il mio allenatore mi aveva regalato questo poster di Paolo Rossi. Paolo Rossi era un idolo per tutti quelli che come me sognavano di diventare un calciatore. Lui, appena uscito dal carcere, non era nessuno. Nel poster si vedeva Paolo Rossi contro il portiere della Germania, Schumacher, che era il giocatore più cattivo di quella edizione. Il mio allenatore mi diceva che se vuoi guadagnare qualcosa dalla vita devi offrire qualcosa alla vita. Quando sono arrivato in Italia pensavo di poter giocare a calcio. Ma la realtà era quella che era. L’unica cosa che potevamo fare era prendere della merce e andare a vendere, e questo mi faceva soffrire tanto. La prima volta che sono entrato in spiaggia per vendere, mi ricordo ancora, al bagno Bruno 89 di Rivabella di Rimini, beh, io vedevo tutta quella gente nuda, bambini, uomini, donne, anziani, tutti in costume, un’immagine che non avrei mai pensato di poter vedere, e all'inizio non avevo il coraggio di andare a vendere un orologio a una persona nuda. Poi mi sono fatto forza e con il tempo ho trovato anche degli amici. Una sera, per la prima volta, fui invitato in una casa di italiani. Lì, in un angolo, vidi una macchina da cucire, e ne rimasi incantato: mi ricordava casa, perché mio padre faceva il sarto. Quei ragazzi me l'hanno regalatala e così ho incominciato a fare i vestiti per i centocinquanta senegalesi con cui abitavo a Rimini.

E come è avvenuto il tuo incontro con il teatro?

Un giorno, nell’89, nel centro di accoglienza di Rimini, mentre stavo cucendo, arrivò Marco Martinelli che mi propose di fare teatro con loro. Dissi subito di sì. Le Albe nell’87 avevano scoperto la Romagna Africana: un geologo racconta che durante la deriva dei continenti un pezzo di terra si è staccata dall’Africa e si è incastrata dove ora c’è la Romagna. Proprio in quel periodo arrivavano molti immigrati dall’Africa. Loro volevano praticare un meticciato fra gli antenati che stavano tornando in Romagna e i discendenti romagnoli. I primi tre senegalesi che hanno lavorato con le Albe hanno smesso per uno scontro di esigenze diverse. Avevano bisogno di guadagnare. Io non ho mai abbandonato la prospettiva materiale, ma ho contemporaneamente cercato di maturare un altro aspetto. Ho comunque fatto delle rinunce, ma per me era la prima volte che sceglievo qualcosa per il mio piacere. È un problema comune in Africa, le cose sono sempre decise dagli altri, fin da piccoli. Io mi sono innamorato del teatro e ho deciso di investire me stesso nel teatro. Il teatro ha rovesciato la mia vita, mi ha permesso di tornare in Africa.

Ma com'è invece portare il teatro nell'Africa rurale?

Il problema dello spettacolo dal vivo in Africa è sempre l’inizio. Non c’è un pubblico che arriva e aspetta l’inizio, ma c’è un pubblico che arriva e vuole innanzitutto partecipare. Non amano osservare, ma partecipare, essere coinvolti nello spettacolo interagendo nello spettacolo. A Dioll Kadd, lavorando sul Pluto, provavamo davanti al villaggio, non avevamo uno spazio intimo in cui creare e poi mostrare. Creavamo tutti insieme, sia il pubblico che gli attori. Di sera pensavamo all’inizio, a come incominciare questo dialogo fra padrone e servo, fra Dio della povertà e Dio della ricchezza, interrompendo qualche cos’altro. Si pensava di iniziare con una festa religiosa o con un sabar, la danza delle donne, che viene interrotta dai due contadini che iniziano il loro dialogo. Qualcosa che appartenesse agli abitanti, che diventano parte dello stesso spettacolo. Una sera assistendo a un sabar ci siamo accorti che era come il parlamento delle donne di Aristofane. Il sabar è uno spazio solo delle donne, è una festa in cui attraverso la danza, la musica, i canti, possono dire tutto quello che pensano. All’origine, nelle famiglie poligamiche, le diverse mogli discutevano con sotto il suono dei percussionisti, attraverso il corpo e il ballo, senza le parole. Visto che parliamo di ingiustizia, anche Moussa lascia nella propria vita dietro di sé un'ingiustizia che può essere la poligamia, ovvero la convivenza forzata fra più donne. Da qui abbiamo pensato al collegamento con Il parlamento alle donne. Se ci sono le condizioni vorremmo portarlo in Italia. Del resto è come un laboratorio della non-scuola fatto a Dioll Kadd, prendere un testo classico e metterlo in vita oggi. Però si tratterebbe di far viaggiare trenta ragazzi e un intero parlamento di donne.

Potresti definirti un “griot”?

Io non posso essere chiamato griot, perché non vengo da una famiglia di griot. Però mi sento griot, se griot vuol dire trasmettere. Fino a quindici anni fa solo i griot potevano praticare l’arte e anche oggi in Senegal la maggior parte degli artisti è di sangue griot. Uno dei primi che ha rotto il tabù è stato Youssou N’Dour, che era griot solo da parte materna, mentre da parte paterna non poteva essere accettato che lui facesse l’artista: doveva dedicarsi a fabbricare gabbie per uccelli, come il proprio padre. Lo andavano a tirare giù dal palcoscenico perché non doveva cantare. I griot nelle loro società sono riusciti a crearsi un ruolo importante. Sono personaggi particolari, contraddittori e hanno una cattiva fama: sono quelli che bevono vino, che trasgrediscono le regole. Però vengono ascoltati e rispettati. L’Islam ha punito i griot. E loro si sono inseriti nel tessuto dell’Islam. Imparando l’arabo, il corano a memoria e iniziando ad avere un peso così anche nell’Islam, perché ne diventano i trasmettitori, i maestri, i mediatori fra le diverse culture. La figura del griot è difficile da capire. Rivestono tutti i ruoli, in politica, nella religione. Se vai nei Mourid di Touba i veri parlatori sono i griot. Sono mentitori, e dalla menzogna si arriva all’arte, e dall'arte ai sogni. È una figura che sta scomparendo, perché molti si vergognano di fare i griot. Si cercano altri lavori, altri modi di vita. Sta scomparendo l’arte del tramandare.

Francesco Bernabini

Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista "Città Meticcia", aprile 2004

www.cittameticcia.it