La storia di Aisha


Soltanto parlarne mi fa molto male…” così colei che chiameremo la piccola Aisha, gracile e minuta ragazza, iniziava il racconto di quel lungo primo viaggio della sua vita. Era partita dalla sua città natia per salvarsi dalla persecuzione del pretendente, membro del “partito dei giovani” (al-shabab) che anche con la forza voleva sposarla (infatti, dopo essere stata sequestrata per alcune settimane da questo uomo, era riuscita a scappare). Grazie all’ aiuto della sua famiglia dovette “lasciare tutto per stare al sicuro”. Un viaggio partito come un salto verso la libertà e la sicurezza, ma Aisha poi arrivò a pensare che forse a destinazione non sarebbe mai potuta arrivare. Piano piano strada facendo, si era trasformato in un incubo dal quale non era possibile uscire. Un lungo tragitto durato 20 mesi nel quale imparò a capire che le persone non hanno tutte lo stesso valore come esseri umani; che non vi è assolutamente differenza tra un adulto e un minore. Anzi, se sei più piccola e in più donna, devi soltanto avere più paura perché sarai più esposta di qualsiasi altro tra i compagni di viaggio a tutte le violenze e vessazioni immaginabili (sia da parte di bande di delinquenti che dalle polizie di frontiera). Banditi lungo la strada che senza alcuna pietà decidevano sulla vita e morte delle persone come risposta a ciò che chiedevano o pretendevano.  

Aisha ricorda di essere stata più volte venduta assieme ad altri tra i trafficanti di esseri umani appena entrata in territorio libico. Carne da macello e non esseri umani da sfruttare, che servono ad arricchire i passeur e i trafficanti in questo giro infernale in cui i rapporti umani non esistono. Si è trovata in un mondo reale ma disumano, mai immaginato, in cui il più forte (perché armato) schiaccia coloro che non si sottomettono. 

Vi sono stati diversi episodi durante il tempo passato nelle prigioni libiche, che sono rimasti impressi nella sua memoria perché le ricordano di altre donne che impazzivano, perdevano il lume della ragione, incapaci di reggere l’effetto massiccio di comportamenti violenti non catalogabili nemmeno come animaleschi (“non ho mai visto un animale essere così crudele con altri animali”, diceva a se stessa). Imparò che bisognava non lamentarsi per non attirare l’attenzione, guardare in basso mai in faccia, erano le strategie che l’aiutarono a “subire meno”, a non essere vista, invisibile. Per motivi che ancora non comprende, riusciva a pensare che doveva resistere, essere forte, non poteva, non voleva mollare, arrendersi; forse “perché in casa mi sono sempre occupata dei miei fratelli più piccoli, dovevo risolvere tutto pur di farli stare bene…” ci disse con candore disarmante. 

E raccontandosi, emerse alla sua coscienza la consapevolezza del fatto che le ferite invisibili rimaste dalle esperienze dolorose, avevano comunque lasciato spazio a ciò che nessuno dei suoi carnefici era riuscito a toglierle: la forza di un carattere indomito e coraggioso. Sentirsi valorizzata per la sua resilienza inconsapevole ma tangibile, l’aiutò a capire che condividere le sue sofferenze psicologiche le aveva dato la possibilità di “vedere” tutta la complessità del vissuto migratorio. L’innocenza perduta rimaneva incorniciata in un processo trasformativo che non è riuscito a bloccare il suo diritto a pretendere un futuro migliore ad essere felice, anzi. Da emigrante che fugge a migrante che supera le più cruente e indicibili difficoltà; da vittima passiva a soggetto che ricostruisce la propria dignità, agendo come protagonista malgrado coloro che vedevano in lei sola la vittima da colpire. Una identità ricostruita a partire dalla narrazione condivisa, a più voci, in cui il rapporto umano riacquisì affidabilità in grado di stimolare la dimensione rassicurante del vivere sociale, stimolando in Aisha la costruzione di nuove e migliori storie.

Josè Aguayo