Qualche mese fa, quando lo sterminio della popolazione civile a Gaza stava divenendo di giorno in giorno più sistematico ed intollerabile, la scrittrice palestinese Adania Shibli si interrogava su come avere ancora fiducia nel linguaggio, nella parola “mutilata” ed “assente” che non può essere in grado di descrivere l’orrore. Ma allo stesso tempo si domandava come poter sopportare il vuoto causato dall’assenza di linguaggio di fronte a un “dolore senza fondo né fine”.
Un tema molto forte quello del narrare l’indicibile, che per decenni ha accompagnato la memoria dei sopravvissuti alla Shoah (Adorno scriveva provocatoriamente “Dopo Auschwitz scrivere poesia è un atto di barbarie”) e che purtroppo oggi pare applicabile anche ad altre esperienze e pratiche dell’orrore, di cui siamo testimoni.
Adania Shibli, di origini beduine, è palestinese “dell’interno”, discendente da una famiglia che nel 1948 rimase a vivere nel neonato stato di Israele, e per questo considerata straniera o cittadina di grado inferiore nel suo paese. Cresciuta tra Ramallah e Londra, è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi.
Il suo romanzo Un dettaglio minore è stato al centro di una polemica durante la Buchmesse di Francoforte nel 2023: avrebbe dovuto ricevere il LiBeraturpreis, ma a causa della forte tensione internazionale in merito al conflitto in Medio Oriente, la premiazione è stata annullata, provocando la reazione di oltre 600 scrittori, autori ed operatori dell’editoria, nonché la defezione da parte degli editori dei paesi arabi.
Shibli, di cui è uscito recentemente in ristampa Sensi per La nave di Teseo, con l’ottima traduzione di Monica Ruocco, è oggi una delle più potenti voci palestinesi.
Fin dall’inizio la scrittura mi ha insegnato come esistere nel mondo causando il minor danno possibile, e permettendomi di vivere alcune esperienze che non possono essere vissute nella realtà in sé. Ciò che ha reso possibile tutto questo è la capacità della letteratura di orientare lo sguardo verso il dolore senza la necessità di praticarlo, e senza permettergli di diventare una forza distruttiva. (…) In altre parole, di creare una consapevolezza che va oltre la questione dell’esperienza diretta. (Corriere della Sera, 16 febbraio 2025)
L’attenzione consapevole al linguaggio e la riflessione sulle modalità espressive è costante e fondante nell’opera di Shibli, a cominciare da quale lingua viene usata, e cioè l’arabo. L’arabo inserito nel contesto della colonizzazione: parlarlo significa divenire oggetto di razzismo, per questo a volte lo si nasconde, per proteggersi e proteggerlo, come un amore negato.
Coloro che sono ai margini non riescono a parlare. Non è facile trovare la propria voce quando ci è stata negata così a lungo. Penso al modo in cui la quotidianità influenza il linguaggio. In Palestina, dove le case sono state distrutte, le terre confiscate, le persone uccise, anche la lingua araba viene degradata. Lo vedi nei cartelli stradali: parole sbagliate, grammatica terribile. Mi hanno inoltrato l’email di una organizzazione che qui a Berlino cerca di affrontare il razzismo nelle scuole. È scritta in tedesco, inglese e arabo: i primi due testi sono perfetti, quello in arabo è pieno di errori. Come puoi fare una campagna antirazzista quando il razzismo è evidente nei volantini che distribuisci? Come puoi rispettare qualcuno se non rispetti la lingua che parla? (IO Donna, 18 aprile 2021)
Quando sei spinto ai margini o la tua vita è marginalizzata o considerata tale, può diventare una strategia salvifica trasformare questa marginalizzazione in una fonte di ispirazione, in qualcosa di maggiore così spiegava Adania Shibli in un’intervista al Manifesto nel 2021 in occasione dell’uscita in Italia di Un dettaglio minore.
Titolo a bene vedere emblematico dell’intera produzione narrativa dell’autrice: l’attenzione alla marginalità, agli esclusi e alle vittime della Storia connota non solo il contenuto, ma anche lo stile e le modalità espressive di Shibli. A rivelare la verità, o meglio la realtà, sono i dettagli, spesso nascosti o difficilmente riconoscibili, all’ombra degli eventi che distolgono lo sguardo dall’essenziale.
Il dettaglio minore in questo caso è una data, il 13 agosto 1949, che lega due donne sconosciute, ma unite dalla ricostruzione della memoria.
La prima, una giovane beduina stuprata e uccisa da un gruppo di militari israeliani nel 1949, la seconda una palestinese nata lo stesso giorno dell’omicidio, che avvierà un’indagine per portare alla luce quel crimine. Ad unirle è l’appartenenza allo stesso popolo, in una Nakba infinita. L’omicidio avviene infatti un anno dopo quella che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe), che ebbe come conseguenza l’esodo e l’espulsione di oltre 700.000 persone, e che gli israeliani celebrano come la Guerra d’indipendenza.
La narrazione non è lineare, per precisa volontà dell’autrice, mantiene uno stretto equilibrio tra il detto e il taciuto (l’indicibile?), è costante eco di un vuoto, di una negazione, di un’assenza che si fa parola.
Continuo ad ascoltare, le mie orecchie si abituano al suono ripetitivo dei bombardamenti che suscitano in me una strana sensazione di vicinanza con Gaza, oltre a un desiderio di sentire quelle esplosioni da più vicino di percepire le particelle di polvere degli edifici demoliti dai bombardamenti. L'assenza di tutto ciò mi fa comprendere quanto sia lontana da quello che mi è familiare e, soprattutto, quando sia impossibile farvi ritorno. (Un dettaglio minore)
I personaggi non hanno nome, divenendo così universali e dando voce ad un silenzio che si trasforma in memoria, sopravvivendo alla cancellazione. Lo stesso accade per le mappe senza il nome Palestina o per le insegne delle strade che non usano l’arabo, raccontando così solo una versione della storia.
Ho paura di perdermi dentro questo paesaggio che mi provoca una forte nostalgia dopo una così lunga assenza, con tutti i cambiamenti che ha subito e l’ennesima conferma che di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan sono tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte alla mia destra e a sinistra.” (Un dettaglio minore)
La letteratura pare essere l’unico spazio in grado di accogliere i silenzi delle voci negate: in Palestina spesso il dolore non ha parole. I sopravvissuti alla Nakba, come i genitori di Shibli, non riuscivano a verbalizzare l’orrore, ma compivano piccoli gesti quotidiani di cura: raccoglievano frutti nei villaggi distrutti, trapiantavano alberi sradicati. Coltivavano così la memoria e praticavano la resistenza.
Sumud è una parola araba di difficile traduzione, spesso resa con “resilienza”, ma si tratta di un concetto complesso che fa riferimento a come una collettività si prende cura degli individui (dei loro bisogni materiali e del disagio psichico) in una situazione di “trauma perenne”.
In un’intervista al Manifesto dell’ottobre 2018 l’autrice afferma:I dettagli di vita presenti nei miei testi possono essere sia di dolore che di solitudine, ma anche domini dove si può resistere. Se noti il vento nei campi perché sei solo, è pur vero che questa situazione ti rivela un aspetto della vita che è un momento fugace e prezioso che ti permette di resistere, di rimanere resiliente di fronte alla solitudine o al dolore.
Anche in Sensi la protagonista non ha nome e vive in un villaggio anonimo: l’autrice ci guida attraverso l’esplorazione sensoriale della “ragazzina” in cinque capitoli dai titoli lapidari: Colori, Silenzio, Movimento, Lingua e Muro.
Il titolo originale, Masas, è intraducibile in italiano perché descrive una forma di contatto, al contempo fisico ed emozionale: dunque sensoriale.Il linguaggio usato è straniante per la totale assenza di dialoghi, ma ci accompagna sempre più in profondità nell’esplorazione dell’ambiente circostante, segnato dal conflitto e dalla privazione.
Si tratta in questo caso del massacro di Sabra e Shatila, avvenuto negli omonimi campi-profughi palestinesi in Libano (16-18 sett. 1982), nei pressi di Beirut, durante l’invasione israeliana del Libano.
La “ragazzina” emerge come archetipo: porta sulle spalle tutto il male del mondo, come sempre accade ai bambini, vittime innocenti delle guerre. Il suo punto di vista diviene dunque quello di un intero popolo, della Palestina intera.
La sua quotidianità, immersa nel costante senso di perdita, nel traumatico incontro con la morte, è ancora pervicacemente intrisa di vita: come un gioco infantile Shibli descrive i suoi incontri col vicino, un’emozione che resiste al di fuori del tempo.
Una mano si avvicina al corpo dell’altro. Lei posa la mano su quella di lui. Poi poggia la mano sul viso di lui. Lui posa la mano sulla gamba di lei. Lei sfiora i capelli di lui. Lui poggia la mano sulle spalle di lei. Lei fa scivolare la mano sotto la maglia di lui, sul petto. La mano di lei riesce a sentire i battiti del cuore di lui e, quando la allontana, quelli spariscono. Giocano finché smette di piovere. La ragazzina non ha più posato la mano sul cuore del vicino, affinché il silenzio preservi il segreto del loro gioco che chiamano r-o-m-a. […] Poi i due chiudono lo sportello dell’auto. Hanno chiamato il loro gioco r-o-m-a, “amor” alla rovescia, per mantenerlo segreto. (Sensi)
Carla Babini
[giugno 2025]
Foto credit: Wiktoria Bosc