Alcune riflessioni sul passato più o meno recente dell’Afghanistan

Intervento presentato al Convegno “Storia, presente e futuro dell'Afghanistan” 

Ravenna, 27 novembre 2021 

Alcuni Paesi per la loro collocazione geografica sembrano essere segnati dal destino. Si pensi alla Polonia, stretta fra Germania e Russia, da sempre calpestata da occidente, da oriente e nel secolo scorso in contemporanea da entrambe le direzioni; oppure all’Armenia contesa nell’antichità da Parti e Romani e poi da Sasanidi e Bizantini, ai giorni nostri chiusa fra Turchia e Azerbaigian.  

L’Afghanistan ha condiviso solo in parte, durante la sua storia millenaria, una situazione di questo tipo. Nell’Ottocento si ritrovò, infatti, con l’impero russo che si avvicinava da nord e l’impero inglese alle sue frontiere sud-orientali. La Russia dal Cinquecento aveva iniziato ad espandersi verso oriente: raggiunse dapprima gli Urali e si trovò innanzi agli spazi sconfinati della Siberia. La attraversò “di corsa” giungendo in breve tempo fin sulle coste del mar del Giappone e poi a nord fino alla Kamčatka e allo stretto di Bering che le aprì le porte dell’Alaska. Verso sud si rivolse contro il qanato di Crimea e contro il Caucaso che conquistò nel corso del XIX secolo. Non era particolarmente interessata all’Asia Centrale, ma lo stesso non poteva dirsi dei ricchi territori dell’India britannica che si estendevano subito al di là di essa.  

Anche Napoleone agli inizi dell’Ottocento guardava all’India con interesse e per un certo periodo di tempo fu valutata un’operazione congiunta russo-francese, cosa che mise in allarme profondo gli Inglesi. La minaccia russo-francese non si concretizzò mai, al contrario Napoleone si lanciò nella pericolosa avventura della spedizione contro la Russia, uno degli elementi che portò alla sua sconfitta ed uscita di scena. La controffensiva russa mise però ulteriormente in luce le potenzialità militari di questo Paese e contribuì a preoccupare ancor di più gli Inglesi.

L’Asia Centrale divenne in questo periodo il campo d’azione principale di quello che fu chiamato il Grande gioco. Fu fondamentalmente una guerra di spie che vide coinvolti Inglesi e Russi e fu condotta soprattutto sul territorio dei qanati e in Afghanistan. Era chiaro agli Inglesi che un eventuale invasione dell’India non sarebbe avvenuta via mare, ma dal corridoio di nord-ovest, quello attraverso il quale erano avvenute tutte le invasioni del subcontinente, compresa quella che aveva portato in India le popolazioni indoeuropee nella più remota antichità relegando le popolazioni parlanti lingue dravidiche nel sud del Paese. Ma i territori a nord-ovest dell’India britannica erano per la maggior parte sconosciuti: era necessario in primo luogo mappare tutta l’area per potere comprendere i punti di debolezza e di forza, le vie di accesso attraverso le quali un esercito sarebbe potuto avanzare.  

Allo stesso tempo si doveva andare in cerca di alleanze nei qanati ed esercitare pressione sull’Afghanistan. Sia i Russi sia gli Inglesi furono attivi nella pressione sui qanati, dove però i Russi si trovarono avvantaggiati per prossimità territoriale, mentre gli Inglesi si concentrarono maggiormente sull’Afghanistan sul cui territorio nel corso dell’Ottocento si svolsero le due guerre anglo-afghane. 

La prima sul finire degli anni Trenta fu una sconfitta bruciante per gli Inglesi; la seconda invece a fine anni Sessanta portò ad un condizionamento della politica estera afghana da parte inglese. I riflessi di queste guerre ed in particolare dell’ultima si trovano anche nella letteratura inglese: nella prima avventura di Sherlock Holmes di Conan Doyle durante il primo incontro dell’investigatore di Baker street con il dottor Watson, Holmes riesce subito ad intuire che il dottor Watson è stato un medico militare ed è appena rientrato dall’Afghanistan.  

I Russi, ovviamente, non invasero mai l’India; pur evitando di inglobare i qanati nel loro impero finirono però per controllarli portando il confine russo-britannico alle distanze minime al punto che si ritenne necessario costruire il corridoio del Wakhan per vitare una frontiera diretta fra i due imperi. 

Così si spiega il confine nord orientale dell’Afgfhanistan che oggi separa il Pakistan dal Tagikistan: il primo nell’Ottocento sotto il dominio inglese come parte dell’India britannica il secondo sotto controllo russo.

Con il Novecento le cose erano destinate a cambiare anche in quest’area. L’esito disastroso della prima guerra mondiale per i Russi e lo scoppio della rivoluzione allontanò ogni velleità di conquista dell’India. L’Afghanistan si ritrovò quindi a fare i conti solamente con gli Inglesi. 

Una nuova guerra scoppiata nel 1919, sebbene vinta dagli Inglesi ridiede al Paese la sovranità sulla propria politica estera. Si aprì un periodo di relativa stabilità per l’Afghanistan sebbene tutto attorno il mondo non si fosse fermato. Fra gli anni Venti e Trenta l’Asia Centrale transitò dalla Russia zarista a quella sovietica e venne radicalmente ridisegnata: su quello spazio che veniva chiamato Turkestan sorsero quattro nuove repubbliche, la quinta il Kazachstan non rientra nella definizione comunemente accettata di Asia Centrale, ma solo in quella “allargata” della regione. 

Anche a sud le cose erano destinate a cambiare: infatti, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’indipendenza dell’India dagli Inglesi portò a ridisegnare i territori a sud est dell’Afghanistan che ebbe come nuovo vicino il Pakistan. I rapporti fra Pakistan ed India non furono mai buoni. L’India raggiunse per prima la bomba atomica, ma poi anche i Pakistani arrivarono a costruire l’arma nucleare: da quel momento la “pace” fra i due Paesi fu garantita dallo stesso principio che l’aveva garantita in Europa per cinquanta anni, la distruzione reciproca assicurata. L’Afghanistan nel periodo della guerra fredda non si schierò con nessuno dei due blocchi, ma le cose mutarono nella seconda metà degli anni Settanta. Lo scenario medio orientale era destinato a deteriorarsi molto rapidamente: lo scoppio della rivoluzione in Iran, la salita al potere di Khomeini dopo la cacciata dello shah e la guerra irachena-iraniana. 

In Afghanistan nel frattempo il governo si era notevolmente avvicinato al blocco sovietico: un repentino cambio al potere in Afghanistan fu però percepito dai sovietici come un tentativo di allontanare il Paese dalla loro sfera di influenza e fu la premessa per un intervento armato. Questo intervento fu pagato a caro prezzo dai sovietici: un’intera generazione di giovani perse la vita, molti rimasero mutilati, altri persero l’equilibrio mentale in territorio afghano proprio mentre la stessa cosa succedeva ai giovani iracheni e iraniani che morivano sullo Shaṭṭ al-‘Arab in una guerra priva di senso. 

Nel clima della guerra fredda e della contrapposizione di due blocchi che rappresentavano modelli di società e sistemi economici differenti, l’Occidente non rimase con le mani in mano di fronte all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Iniziò a sostenere economicamente e ad armare le forze che contrastavano i sovietici nel paese. La lotta antisovietica fu vista come una lotta dell’Islam contro gli invasori infedeli e atei. 

Lo studio della storia dell’ottocento e la consapevolezza della difficoltà inglese nell’affrontare la guerra sul campo in Afghanistan non aveva insegnato abbastanza ai sovietici che si tuffarono in un’impresa che si rivelò un disastro e che li portò a ritirarsi dieci anni dopo dal territorio afghano lasciando sul campo migliaia di morti. Ma gli “alleati” dell’Occidente, i mujahidin, non riuscirono a comporre il mosaico afghano e il potere arrivò in mano ai talebani pochi anni dopo la ritirata sovietica. 

Nel frattempo il mondo era di nuovo cambiato. Dopo il crollo delle democrazie popolari, la stessa Unione Sovietica era implosa dando vita a quindici diverse repubbliche: il modello di società socialista veniva rapidamente archiviato e messo in dimenticatoio come disastroso politicamente ed economicamente. Si aprivano i dieci anni di dominio incontrastato degli Stati Uniti sul mondo: il sistema bipolare era crollato, non esisteva più un modello concorrenziale, né una superpotenza che potesse contrastare il potere americano. Vi fu però un risveglio amaro con gli attentati dell’11 settembre. Era qualcosa di nuovo, la “guerra” era arrivata sotto casa ed il nemico non era “convenzionale”. La reazione dell’Occidente nel dichiarare guerra al “terrorismo di matrice islamica” fu quanto mai azzardata e avventate furono le azioni intraprese: l’invasione dell’Afghanistan per smantellare la rete messa in piedi da Osama bin Laden, che però verrà ucciso molti anni dopo non in Afghanistan, ma in Pakistan e la guerra contro l’Iraq per privarlo delle armi di distruzione di massa che però non verranno mai trovate. 

Tutti questi piani erano giustificati dall’idea di rovesciare sistemi politici feroci, dittature ed anacronismi della storia, portando al loro posto la democrazia ed i valori dell’Occidente. Non avevamo ancora capito o abbiamo finto di non capire che i modelli politici non si possono esportare come le merci e che ogni società segue la sua via evolutiva (un po’ come le lingue… e per questo abbiamo sia la linguistica storica sia quella tipologica) e che non necessariamente questa via porta alla democrazia. Abbiamo sempre guardato al mondo con una visione molto parziale, convinti che i nostri valori siano i migliori e che proprio per questo ogni popolo li debba desiderare. Ma non ha funzionato: difficile proporre un modello di democrazia in una società a struttura tribale che non ha mai conosciuto niente del genere. 

In Afghanistan abbiamo ottenuto solamente un risultato: spaccare la società afghana in due. Una parte, quella delle città ha in buona misura condiviso i nostri valori, il resto del paese, quello fatto di piccoli villaggi isolati da un territorio difficile non ne ha voluto sapere: gli erano e sono alieni come “zajcu stop signal” direbbero i Russi. 

Dopo venti anni di occupazione militare ce ne siamo dunque andati di tutta fretta, lasciando le armi ai nuovi “vecchi padroni” e lasciandoci dietro buona parte di chi ha condiviso i nostri valori. Non credo che potremo più fare niente di positivo per quel Paese: non siamo stati capaci di cambiarlo in venti anni occupandolo, difficilmente otterremo qualcosa da lontano. Perché in fondo di quali strumenti disponiamo per fare pressione? L’isolamento, le sanzioni? Ma tutto questo si ripercuote sia sui talebani sia su quella parte di popolazione che voleva una società diversa: questi strumenti non sono come farmaci antitumorali che selezionano le cellule da colpire, colpiscono indistintamente tutti. Infatti anche le sanzioni rivolte alla Russia hanno colpito soprattutto quella parte di popolazione che vedeva nell’Europa un modello, che mandava i figli a studiare nelle università europee e voleva vivere come in occidente. In questo momento possiamo solo aiutare chi riusciamo a fare arrivare da noi, non possiamo sperare che i talebani cambino la loro visione della società: non hanno alcuna intenzione di farlo ed i Paesi che oggi sembrano avere un ruolo attivo nella regione egualmente non hanno ragioni per farlo. 

Russia e Cina hanno un solo interesse: evitare che il terrorismo islamico sia esportato da un lato in Asia Centrale e da qui nei territori a prevalenza religiosa musulmana della Federazione Russa e dall’altro nello Xinjiang. 

Ai Cinesi non interessa proprio niente della nostra democrazia e dei nostri valori: non è la linea evolutiva che ha scelto la loro società: è come se fossero nella linea di universo β per gli appassionati di Steins Gate. I Russi invece si sono già scottati una volta in Afghanistan e come dice il proverbio “chi si scotta con l’acqua calda, poi ha paura anche di quella fredda”.

È troppo tardi, dunque, “poezd ušel”: cerchiamo di aiutare per quanto possiamo chi sfugge da questa nuova gabbia e rischia di trovarsi bloccato dai nuovi muri o dai fili spinati che spuntano in tutti gli angoli dell’Europa, non chiudiamo completamente gli aiuti umanitari all’Afghanistan perché anche se la sua nuova classe politica è quanto di peggio l’Occidente si potesse aspettare vi sono milioni di esseri umani che sopravvivono in questa terra da troppo tempo senza pace e senza speranza. 

Paolo Ognibene 

[dicembre 2021]

Ricercatore presso il Dipartimento di Beni Culturali, Sede di Ravenna. Specialista di Filologia iranica.

Immagine: credit Gianluca Costantini