Afghanistan, sei mesi dopo

Nel mese di novembre 2021, durante una conferenza sull’Afghanistan tenutasi a Ravenna, ho cercato di delineare la storia del Paese dal “Grande Gioco” in avanti, al fine di comprendere meglio la situazione attuale.  

Lo studio della storia, infatti, se raramente ci aiuta a non ripetere gli errori commessi nel passato, ha in compenso la capacità di farci comprendere meglio il presente, ciò che ci circonda. 

Gli avvenimenti che si manifestano intorno a noi, infatti, anche se sono vicini nel tempo non necessariamente sono più chiari e dai contorni meglio delineati: la storia può quindi offrire una chiave di lettura ed un aiuto a “meglio interpretare”.  

A distanza di più di cinque mesi il titolo di questo breve scritto richiama quello di un intervento tenuto alcune settimane fa a Bagnacavallo ‒ possiamo constatare che le peggiori ipotesi che si potevano fare sul futuro dell’Afghanistan si sono concretizzate. 

Il repentino disimpegno dei Paesi occidentali, avvenuto dopo circa venti anni di occupazione militare non poteva avere esito diverso. Penso sia fuorviante ed inutile immaginare che le forze occidentali non avessero una chiara percezione di quanto sarebbe successo nell’immediato, dopo il ritiro dall’Afghanistan.  

Il ritiro è stato deciso sulla base di una mera valutazione di costi-benefici: troppi soldi spesi per ottenere una stabilizzazione che non arriva mai, troppi morti da giustificare davanti alla propria opinione pubblica. In questo senso Biden non ha fatto altro che portare avanti un’idea maturata già durante la presidenza Trump, sebbene la rapidità del collasso gli si sia ritorta contro ed il disimpegno sia divenuto una fuga disordinata che ad alcuni ha fatto ricordare avvenimenti seppelliti in un passato non troppo remoto.  

L’occidente si era lanciato nell’ “impresa” afghana a cuor leggero, senza considerare tutte le incognite che un Paese difficile come l’Afghanistan poteva presentare. L’insuccesso sovietico negli anni Ottanta a questo proposito è stato male interpretato: il conflitto sviluppatosi durante la guerra fredda è stato letto dall’occidente come una sconfitta sovietica ottenuta principalmente grazie al sostegno occidentale alle forze afghane, impegnate in una lotta politico-religiosa contro l’invasore ateo. Se senza dubbio il sostegno occidentale è stato determinante è anche vero che l’Afghanistan è stato altrettanto pronto a declinare in versione anti-occidentale gli stessi principi. 

Questo ventennio ha dimostrato che l’esportazione del nostro modello di “società” non ha successo quando la struttura sociale è profondamente diversa: in questo processo l’Afghanistan è solo un tassello come l’Iraq e la Libia; inoltre, poiché non vogliamo imparare la lezione, presto si aggiungeranno altri stati che saranno “distrutti” nel nome della democratizzazione e dell’azione civilizzatrice dell’occidente.  

In Afghanistan il nostro modello ha avuto un relativo successo solo nelle grandi città, ma non è stato affatto compreso nei villaggi, nelle valli fra le montagne, nelle piccole comunità spesso distinte per lingua e tradizioni. 

Ecco dunque che la storia si ripete: l’impossibilità di trovare una soluzione alla complessità afghana ha portato dopo il ritiro sovietico all’ascesa dei Talebani e dopo il ritiro occidentale al loro ritorno. Con una variante però: nel panorama afghano di oggi i Talebani non sono neppure da considerare il peggiore dei mali, poiché sul territorio sono presenti gruppi ben più pericolosi. Il ritiro occidentale ha lasciato inoltre un vuoto chiaramente percepibile: uno stato di fatto isolato, non riconosciuto, un disastro umanitario di proporzioni ingenti davanti al quale chiudiamo gli occhi perché una nuova crisi bussa alle nostre porte e cambia l’ordine delle nostre priorità. 

Con l’uscita di scena di Americani ed Europei non abbiamo più modo di condizionare la politica del Paese: l’unico sistema che conosciamo a tal fine, infatti, è quello delle sanzioni e dell’isolamento, ma le prime colpiscono indistintamente tutti, oppressori ed oppressi: nello stato attuale in cui si trova a vivere la popolazione afghana sarebbero percepite dai nostri cittadini come immorali; quanto al secondo in un mondo sempre più multipolare non siamo più in grado di mantenerlo: l’Occidente ha perso la prerogativa di decidere per tutti anche se spera ancora di continuare a farlo.  

L’uscita di scena occidentale ha lasciato protagonisti sul terreno i Talebani, ora intenti a “ricostruire” l’ordine demolito dagli occidentali venti anni fa e gli altri due attori principali della politica nella regione: la Russia e la Cina.  

La Russia, memore della lezione impartita dagli Afghani durante l’invasione sovietica, non sembra particolarmente interessata ad immischiarsi direttamente nelle questioni afghane: la sua priorità resta evitare che il terrorismo islamico penetri nelle repubbliche centrasiatiche a da lì nella Federazione russa, un soggetto complesso che comprende molti territori a maggioranza musulmana. La “operazione militare speciale” in Ucraina ha in ogni caso completamente cambiato le sue priorità.  

La Cina ha interessi maggiori in Afghanistan, legati alla Via della Seta: come la Russia, la sua priorità è evitare che il terrorismo sia esportato nello Xinjiang. Se ottiene garanzie a questo riguardo non ha alcun motivo per interferire con il ristabilimento dell’ordine talebano nel Paese. 

I Diritti umani in Afghanistan, la condizione delle donne, la sharī‘a come base del diritto non sono un suo problema, sono un problema interno afghano e la Cina non interferirà in alcun modo. Ciò che vuole la Cina prima di ogni cosa è la stabilità. È disposta a tollerare che l’ordine sia infranto solo se ci sono interessi maggiori in gioco, come nel caso ucraino. 

Dato questo scenario è difficile pensare di potere fare effettivamente qualcosa per l’Afghanistan: la priorità deve essere accogliere chi riesce a lasciare il Paese, aiutare in ogni caso la popolazione che non è responsabile per le scelte di chi ora è al potere. Ma di fronte alla disgrazia di questo popolo martoriato da decenni di guerra spesso chiudiamo gli occhi o volgiamo lo sguardo dall’altra parte. La Polonia ha mostrato una forte solidarietà verso i profughi ucraini, ma non ha mostrato la stessa solidarietà verso chi cercava di transitare dalla frontiera bielorussa verso l’Europa: fra i tanti c’erano molte persone in fuga dalla guerra e dalla disperazione. Anche se quella pressione è stata creata artificialmente, le donne e i bambini che sono rimasti al freddo nei boschi vicino alla frontiera in pieno inverno erano altrettanto reali quanto chi scappa oggi da Kiev.  

Noi abbiamo dei valori conquistati nei secoli attraverso un percorso lungo e complesso ai quali teniamo molto e dei quali andiamo fieri, ma a volte li applichiamo con arbitrio, in alcuni casi sì in altri no, a nostra discrezione. È vero che nessuno è perfetto, ma allora forse sarebbe meglio ricordarlo più spesso e comprendere che anche noi sbagliamo come tutti e che per i nostri errori a volte sono altri a pagare. 

Paolo Ognibene
[Aprile 2022]

Foto: credit Carla Babini (ANSELM KIEFER Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po' di luce, Palazzo Ducale Venezia, dettaglio)