Wu Ming 2 e il laboratorio di scrittura interculturale–collettiva meticcia

Per approfondire la riflessione relativa al tema “scrittura collettiva interculturale e meticcia”, anche in occasione del laboratorio “Prima gli Italiani? Movimenti migratori e identità meticce” che si svolgerà da febbraio 2020 presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, abbiamo rivolto alcune domande a Wu Ming 2, il tutor che ne coordinerà i lavori.

Dal 2007 Il Dipartimento di Filologia Classica dell'Università di Bologna, in collaborazione con l'Associazione Eks&Tra, organizza un laboratorio di scrittura interculturale aperto al confronto e alle voci di migranti e rifugiati, per favorire reale conoscenza reciproca tra voci autoctone e presenze straniere in una contaminazione che tracci un possibile percorso “meticcio”. Nel corso del tempo, a partire dal 2012, si è potenziato l'aspetto di scrittura collettiva, anche coinvolgendo Wu Ming 2 (membro, fin dalle origini, del gruppo di scrittori Luther Blissett, successivamente Wu Ming) come tutor del laboratorio. Ci sembra importante riflettere insieme a lui su alcuni aspetti del suo lavoro coi gruppi di partecipanti.

Come è nata la collaborazione col laboratorio? Interesse ai temi, al metodo, alla dimensione didattica?

La collaborazione è iniziata dopo l’uscita di Timira, un romanzo “meticcio” scritto a sei mani da un’anziana attrice italo-somala (Isabella Marincola), da suo figlio Antar Mohamed e da me. Da quel libro è nata l’idea di proporre la scrittura collettiva anche all’interno del laboratorio interculturale, dove fino a quel momento i partecipanti erano invitati a scrivere solo in maniera individuale.

Scrittura interculturale o meticcia? C'è una differenza e quale definizione privilegiare?

Il termine “interculturale” non mi convince del tutto perché sembra presupporre che mettere nella stessa aula persone di diverse provenienze significhi avere diverse culture. Invece non è affatto detto che tra un ragazzo di Bologna e una ragazza di Tangeri ci debba per forza essere una differenza culturale. Con lo scopo nobile di tutelarle, spesso rischiamo di dare troppa importanza a queste differenze, a sopravvalutarle. Preferisco il termine “meticcio” perché mette l’accento sulla mescolanza, e quella c’è sempre, è inevitabile, anche tra due persone cresciute nella stessa casa. Se il me stesso di oggi dovesse scrivere assieme al me stesso di cinque anni fa, sarebbe già una scrittura meticcia.

Come nasce una scrittura polimorfa e collettiva che rinuncia spontaneamente ad una voce unica e identitaria?

La scrittura collettiva non rinuncia a una voce unica, ma crea una voce unica a partire da persone diverse. Così come i Beatles hanno una “voce unica” anche se sono in quattro e ciascuno di loro, preso singolarmente, ha una “voce unica” che non è la stessa del gruppo. Tutto il lavoro consiste in questo, ma in fondo non è diverso da quello che deve fare chi scrive da solo. Nessuno ha una sua “voce”, prima di cominciare a cercarla. Quando da adolescente scrivevo i miei primi racconti, non avevo una mia “voce”, ma imitavo i miei scrittori preferiti. Credo sia così per chiunque: se vuoi davvero esprimerti in maniera riconoscibile, devi trovare il tuo modo di farlo. Miles Davis diceva di averci messo quindici anni prima di trovare un suono di tromba che fosse suo, inconfondibile. Allo stesso modo, un gruppo di persone può cercare una voce di gruppo, facendo un tipo di ricerca tutto sommato simile. È soprattutto una questione di mentalità, mettersi nell’ottica di produrre un testo collettivo e non una sommatoria di quel che piace a ciascuno.

Esiste un metodo o una pratica che possa contribuire alla creazione di un “noi attraverso la scrittura” ?

Il metodo di don Lorenzo Milani e della Scuola di Barbiana è senz’altro il più conosciuto ed è tuttora molto attuale. Tuttavia, non funziona per testi narrativi. Un conto è la nascita del "noiattraverso una scrittura argomentativa - una lettera aperta, una manifesto, un saggio - e un altro è il "noi" che si manifesta in un racconto. Il motivo principale è che quando leggiamo un testo saggistico, possiamo facilmente immaginarci che l’abbia composto un gruppo, e quel gruppo può esprimersi direttamente nel testo, dire “noi pensiamo così” in maniera esplicita. In un testo narrativo, invece, l’autore è implicito, ce lo dobbiamo immaginare attraverso i personaggi e le vicende raccontate. E per di più, ce lo immaginiamo sempre come un individuo. Chi legge un racconto scritto da un gruppo senza sapere com’è stato scritto, non immagina che ci siano più autori (se lo immagina, di solito significa che la scrittura collettiva non ha funzionato e che le diverse mani non sono riuscite a trovare l’amalgama giusto). Quindi un gruppo che scrive un racconto collettivamente deve inventarsi una storia dietro la quale nascondersi e attraverso la quale esprimersi. Testi di altro genere funzionano in maniera più diretta e quindi sono più semplici da comporre in gruppo. 

Come sono mediamente composti i vostri gruppi di lavoro? Quanti partecipanti, di quale fascia di età, sesso, provenienza, lingua madre?

Di solito si formano 8/10 gruppi da 4/5 persone. L’età prevalente è quella degli studenti universitari, quindi 20-25 anni, ma sono ben rappresentate tutte le generazioni, fino ai settant’anni. Negli ultimi anni, purtroppo, si è ridotta la presenza di uomini e donne nati fuori dall’Italia, perché sono sempre più in crisi i progetti di accoglienza sul territorio, gli SPRAR, le scuole di italiano per migranti. Molti dei nostri partecipanti stranieri arrivavano da quei percorsi, che oggi sono più precari e chi è in una situazione più precaria difficilmente riesce a concedersi lo svago di un laboratorio che dura quattro mesi e impegna un pomeriggio a settimana.

Quanto è importante la presenza di migranti/rifugiati all'interno dei gruppi e qual è il loro apporto al lavoro collettivo?

La loro presenza è molto importante perché il laboratorio si propone di esplorare, con gli strumenti della narrativa, proprio il tema della migrazione, il concetto di alterità, l’idea di straniero con i suoi stereotipi. L’esperienza dei migranti diventa così molto stimolante e fonte di spunti che nessun altro saprebbe offrire. Inoltre, arricchisce il laboratorio anche dal punto di vista linguistico e pone ai gruppi un problema in più da risolvere creativamente, quello delle diverse competenze nell’uso dell’italiano scritto, cioè la lingua nella quale vengono prodotti i racconti.

Carla Babini