Ius soli: un passo in avanti di giustizia e civiltà che non può più attendere


Nel 2022 la legge sulla cittadinanza tuttora in vigore in Italia compirà 30 anni. Una legge preistorica, la legge n. 91 del 1992, perché la società italiana negli ultimi 30 anni si è profondamente modificata dal punto di vista sociale, demografico e culturale. 

Secondo il Dossier Immigrazione di Idos “senza afflusso di immigrati nel 2065 l’Italia perderebbe 14 milioni di abitanti, a causa della bassa natalità. E i cittadini nati all’estero sarebbero almeno 12 milioni.
Una simulazione intermedia – che vede un afflusso limitato di migranti – ridurrebbe la perdita autoctona a “soli” 7 milioni. In effetti il progressivo declino delle nascite (circa 470 mila l’anno che scenderebbe a 430 mila in 50 anni) e la riduzione nei decessi porterà ad un calo del 10% della popolazione in età lavorativa con forte aumento degli over 65 ( dal 22 al 33%)”.
Un vero e proprio ossigeno demografico arriva dai cittadini di origine straniera nati o cresciuti in Italia.

Dovrebbe essere una legge naturale quella per cui un bambino nato in Italia acquista automaticamente la cittadinanza italiana e invece la regola vigente è ancora quella cosiddetta dello ius sanguinis: è cittadino il figlio di padre o madre italiani.
E può chiedere il riconoscimento della cittadinanza il minore straniero nato in Italia che vi abbia soggiornato ininterrottamente fino al 18° anno di età, ma solo una volta divenuto maggiorenne.
Le altre modalità previste dalla legge per diventare cittadini sono l’adozione del minore straniero da parte di un italiano, il matrimonio con un cittadino italiano e la naturalizzazione dopo 10 anni di ininterrotta e regolare residenza in Italia (nientemeno che con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno dopo una procedura burocratica lunga, costosa ed estenuante che può durare - per legge - 3 anni e oltre). 

Dopo le dichiarazioni del nuovo Segretario del PD Enrico Letta, che l’ha giustamente indicato come priorità politica, si riaffaccia nel dibattito la riforma ispirata al diverso principio dello ius soli (diritto del suolo): è italiano chi nasce sul territorio italiano.
Ma il tema non è così semplice: esattamente come per il Covid esistono diverse varianti, ovviamente tutte inventate nel laboratorio della politica al ribasso, per limitare il più possibile l’accesso dei bambini e dei ragazzi di origine straniera nati e cresciuti in Italia ad un diritto sacrosanto. 

L’ultima volta che se ne era parlato era nel 2015. Io mi trovavo in Parlamento e da deputato espressi un voto di astensione sulla proposta di legge voluta dal governo, approvata dalla Camera e cinicamente spiaggiata in Senato fino all’esito naturale della legislatura. Il disegno di legge, nato già morto, introduceva in Italia il cosiddetto ius soli temperato: avranno la cittadinanza i figli degli immigrati, ma dovranno aver frequentato un ciclo scolastico e uno dei genitori dovrà essere in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata.
Il mio fu un voto particolarmente sofferto, avendo dedicato tutta la mia vita professionale alla promozione del diritto di cittadinanza quale strumento principe per la costruzione di una nuova comunità laica, aperta, multietnica, multireligiosa, solidale, inclusiva e pluralistica.
Quel progetto di legge si era allontanato dal sentiero virtuoso in cui il dibattito nel paese, nella società e nelle istituzioni, si era incamminato, grazie ai movimenti delle seconde generazioni, #italianisenzacittadinanza in primis.
Quella proposta di legge non aveva la dignità di una vera riforma della cittadinanza, non parlava affatto di un diritto soggettivo pieno ma parlava ancora il linguaggio antico, melmoso, burocratico, grigio e compromissorio dei diritti octroyés, dei diritti concessi dall’alto.
Con quella proposta di legge si escludevano dall’accesso alla cittadinanza centinaia di migliaia di bambine e bambini, discriminando il loro diritto in base al censo dei genitori, sì, perché ancorare il diritto dei bambini nati in Italia alla titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo da parte dei genitori significava sottomettere quel diritto alla sussistenza dei requisiti di reddito.
Si introduceva un diritto a metà, un diritto zoppo, un diritto condizionato, uno ius soli talmente temperato che lo ius scompariva nelle nebbie del basso, mediocre compromesso tra Pd e Ncd e rimaneva solo il suolo, quello su cui tutti saremmo caduti di li a poco, al risveglio da un sogno che il governo di allora e la sua maggioranza avevano tradito.
Il testo di legge fu approvato con 310 sì, 66 no e 83 astensioni, tra le quali anche la mia: in un’aula semideserta al voto finale si astennero i deputati del Movimento 5 Stelle mentre contro il testo votarono Lega Nord, Fratelli d’Italia e Forza Italia.
La strana maggioranza guidata oggi dal flemmatico Draghi credo che molto difficilmente, pur sollecitata dal “nuovo” PD di Letta, riuscirà a convergere su un testo di riforma della legge sulla cittadinanza degna di questo nome.
Il ceto politico attualmente al potere sembra incapace di serietà e lungimiranza, incapace di compiere quel passo in avanti di giustizia e di civiltà che non può più attendere.


Andrea Maestri

[31 marzo 2021]

Avvocato cassazionista, esperto di diritto dell’immigrazione, già membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati.