Il welfare in Italia: stranieri sì o stranieri forse?

Si affaccerà all’orizzonte, finalmente, un sistema di welfare basato sulla considerazione del bisogno? La domanda può sembrare sciocca: perché, a che altro potrebbe servire un sistema di welfare se non a rispondere ai bisogni delle persone più povere e fragili e contribuire così alla redistribuzione del reddito e all’uguaglianza tra gruppi sociali?

Già, dovrebbe essere proprio così. Ma così non è mai stato, perché da molti anni il sistema di welfare italiano è gravato da criteri selettivi che poco hanno a che vedere con il bisogno. In particolare, il criterio che vuole dividere “padroni di casa” e “ospiti”, con i secondi che, per il solo fatto di essere ospiti, si vedono riconosciuti diritti sociali ridotti rispetto a quelli riconosciuti ai padroni di casa. Come se la cittadinanza fosse non il collante che unisce una collettività, ma la spada che divide quelli che hanno diritto di essere soccorsi quando la vita si fa difficile e quelli che invece dalla difficoltà devono uscire da soli o quasi; e meglio ancora se fanno i bagagli e se ne tornano da dove sono venuti. Questa era l’idea imperante fino a non molti anni fa quando ancora si varavano leggi o provvedimenti amministrativi che riservavano prestazioni (specie quelle rivolte alla famiglia) ai soli italiani, talora con la motivazione di stampo schiettamente xenofobo secondo la quale solo le famiglie italiane dovrebbero essere incentivate ad accrescere la natalità nazionale.

Poi gli argomenti si sono fatti più sottili e ha cosi prevalso l’idea che l’ospite straniero non potesse per sé stesso essere escluso, ma che tuttavia fosse possibile richiedergli un certo “radicamento territoriale”, una sorta di prova di appartenenza alla collettività. È stato così chiesto, in particolare, la presenza pregressa sul territorio (nazionale o regionale o locale) o la titolarità di un determinato permesso di soggiorno. È quindi incominciato un complicato percorso a ostacoli che ha attraversato le tappe più diverse. Dapprima la Corte Costituzionale ha affermato che le prestazioni volte a rispondere a bisogni primari – specie quelli inerenti la salute - non possono avere nessuna limitazione derivante dalla nazionalità o dal titolo di soggiorno e vanno quindi riconosciute a tutti (così, ad esempio, la sentenza 187/2010). Dal canto suo la Commissione Europea ha avviato delle procedure che hanno obbligato l’Italia a uniformarsi quantomeno alla direttiva sui soggiornanti di lungo periodo (la 2003/109) garantendo a questi ultimi le medesime prestazioni riconosciute ai cittadini italiani.

In effetti questo è l’assetto dell’attuale welfare italiano: le prestazioni di invalidità (ad esempio l'indennità di accompagnamento e la pensione di inabilità) sono riconosciute a tutti, mentre le prestazioni assistenziali di maternità e di famiglia (ad esempio l'indennità di maternità di base, l'assegno famiglie numerose, il bonus bebé o il premio alla nascita) sono riconosciute solo agli italiani e agli stranieri titolari di permesso lungo periodo e ai titolari di protezione internazionale. Resta così escluso il 45% degli stranieri regolarmente soggiornanti, tra i quali la percentuale di famiglie povere è – secondo i dati ISTAT – tre volte più alta della percentuale di famiglie italiane.

A questo assetto, già cosi iniquo, si sono aggiunte le previsioni di molti enti locali e Regioni che hanno introdotto ulteriori requisiti di presenza prolungata sul territorio per accedere a prestazioni di fonte locale. Questo nonostante sia noto – come conferma ISTAT - che gli stranieri hanno una mobilità interna doppia rispetto agli italiani e dunque faticano di più a maturare, ad esempio, il requisito dei cinque anni in una determinata Regione. E si sono poi aggiunte le storture introdotte nel 2019 dal governo di centro destra. Questo non solo ha “corretto” una prestazione familiare introdotta nel 2015 (la “carta famiglia”, peraltro poi attivata solo nel marzo 2020) escludendone addirittura tutti gli stranieri extra UE, ma soprattutto, nel varare la prima prestazione “universale” di contrasto alla povertà, ha rispolverato il requisito del permesso di lungo periodo, unito a quello di 10 anni di residenza in Italia. Il risultato è che la quota di stranieri che ha potuto avere accesso al reddito di cittadinanza è ad oggi solo del 7%.

In questa situazione ha fatto irruzione l’emergenza COVID e con essa la previsione di prestazioni espressamente qualificate di “solidarietà alimentare”. Si tratta di prestazioni volte a soccorrere le persone nel bisogno alimentare determinato dall’improvviso blocco della mobilità e del lavoro, senza distinzioni di condizioni personali e di cittadinanza. Naturalmente qualche Comune (pochi, per fortuna) non si è arreso e ha cercato di introdurre anche in questo caso ulteriori requisiti a danno degli stranieri, limitando persino queste prestazioni ai soli lungo-soggiornanti. Per fortuna i giudici hanno subito messo un freno a queste storture, riconducendo questo intervento di soccorso nell’ambito dei “diritti fondamentali della persona” (nutrirsi per sopravvivere è certo un diritto fondamentale) che il comma 1 dell’art. 2 del TU immigrazione riconosce a tutti gli stranieri “comunque presenti sul territorio nazionale”. Ne sono nate tre decisioni giudiziarie, tutte uniformi (Tribunali di Roma, di Ferrara, di Brescia) che hanno esteso il diritto ai buoni-spesa anche agli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale.

Non resta che sperare che un'impostazione di questo genere, di stampo “universalistico”, sopravviva alla fase di emergenza e in questo senso un aiuto fondamentale può venire dalla Corte Costituzionale. Nella sua recente sentenza n. 44 dell'11 marzo 2020 ha dichiarato incostituzionale il requisito dei cinque anni di residenza in una determinata Regione per accedere alle case popolari chiarendo che ogni criterio estraneo alla valutazione del bisogno deve sempre passare in secondo piano: se una graduatoria va fatta (e sempre andrà fatta, stante la scarsità delle risorse) dovrà essere fatta secondo il bisogno, non secondo altri criteri.

Certo, la strada è in salita e l’elenco degli ostacoli da superare è quanto mai lungo: le forti resistenze ideologiche che ancora permangono (basti dire che l’attuale governo non sembra avere intenzione di mettere mano ai requisiti discriminatori del reddito di cittadinanza); un sistema dove una parte consistente dell’economia continua a viaggiare nel sommerso, così che l'accertamento dell'effettiva condizione di bisogno diventa impresa quasi impossibile; la cronica incapacità di pensare un welfare basato sui servizi (molto più idoneo per una efficace lotta alla povertà) anziché sulle erogazioni monetarie. Si aggiunga che le idee, anche quando non sono costruite su preconcetti ideologici, restano spesso confuse: basti considerare che, proprio pochi mesi prima dell’arrivo della pandemia, il parlamento (con la finanziaria di fine 2019) ha pensato bene di eliminare i limiti massimi di reddito per quasi tutte le prestazioni di famiglia (assegno di natalità, bonus asili nido e già prima il premio alla nascita). In questo modo oggi, per la prima volta, queste prestazioni vengono riconosciute, se pure in misura ridotta, anche alle persone più facoltose, continuando però ad escludere quel 45% di cittadini stranieri.

Evidentemente non è questo il senso di un welfare universale, basato sulla centralità del bisogno. Ma l’emergenza preme e magari, miracolosamente, ci obbligherà a metterci sulla buona strada.

Alberto Guariso

[27 maggio 2020]


Alberto Guariso, avvocato in Milano, specializzato in diritto del lavoro e diritto dell’immigrazione, è responsabile per ASGI del servizio antidiscriminazione ed è docente a contratto in diritto antidiscriminatorio all’Università di Brescia.

In collaborazione con Asgi - Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione. 

www.asgi.it