Io sto con la sposa. Una storia di disobbedienza civile da non dimenticare.

A fine ottobre 2013 Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry incontrano alla Stazione Garibaldi di Milano un ragazzo che parla in arabo e che vuole sapere come raggiungere la Svezia. Abdallah viene dalla Siria ed è uno dei superstiti del naufragio dell'11 ottobre, quello in cui sono scomparse oltre 200 persone al largo di Lampedusa. L'incontro li scuote molto: Gabriele (scrittore e giornalista) è appena tornato da Aleppo, dopo l'ennesimo reportage e Khaled (poeta, editore e grafico) a Damasco ci è nato. Sentono l'urgenza di reagire, ma il progetto diviene chiaro solo dopo l'incontro con l'amico regista Antonio Agugliaro.
Nasce così l'idea un po' folle, ma di fatto geniale, di inscenare un matrimonio: quale poliziotto di frontiera chiederebbe i documenti a una sposa? Da una battuta fra amici si sviluppa allora il progetto di un film che racconti la storia di una coppia di neosposi, il siriano Abdallah e la palestinese Tasnim (l’unica chiamata a “recitare” la parte), in viaggio con il loro corteo nuziale, in realtà il gruppo di profughi, per festeggiare il matrimonio.

La scelta della Svezia non è casuale: è infatti l' unico Paese europeo che dal settembre 2013 concede il diritto di residenza a tutti i siriani che chiedono asilo. Durante il viaggio i protagonisti si raccontano, rivelandoci cosa significa veramente essere un rifugiato e ricordandoci correttamente che nessuno sceglie di esserlo. E così Tasnim ci dice cosa significa vivere sotto il rumore delle bombe: “A volte a casa mettevo le cuffie a tutto volume e cominciavo a ballare, ballare, ballare. Dove c’è tanta morte c’è anche tanta vita.” E tanta vita segna tutto il loro percorso accompagnato dalle musiche straordinarie dei Dissoi Logoi, il gruppo di world music che ha curato la colonna sonora, in un impegnativo lavoro di composizione sulle immagini affidato spesso all’improvvisazione. Scortati per oltre tremila chilometri, con tappe a Marsiglia, Bochum e Copenhagen, tentando di eludere i controlli delle autorità di frontiera, i protagonisti testimoniano il diritto delle persone a muoversi senza impedimenti, sfuggendo a dittature e conflitti insostenibili. L’abito bianco da sposa è un simbolo di libertà, una sorta di lasciapassare che accompagna la storia, fin dall’inizio.
“Ho un portafortuna – racconta Del Grande nei primi minuti del film, estraendo dalla tasca un pezzo di stoffa bianca -. L’ho preso ad Aleppo. Eravamo chiusi in una casa da due giorni sotto le bombe, quando è arrivato un ragazzino che avrà avuto nove o dieci anni. Aveva con sé un vestito da sposa, poi ha preso le forbici e lo ha tagliato. E ci ha dato questo pezzo di stoffa bianca. Ce lo siamo messi in testa, come una benda, perché era il segnale per i cecchini di non sparare. E così è stato. Se ha funzionato lì funzionerà anche ora”. Nonostante la brutalità delle esperienze vissute e narrate dai protagonisti in passaggi toccanti, quello di Io sto con la sposa è un racconto che mantiene uno sguardo lieve ed è questa la forza dirompente di un piccolo progetto di disobbedienza civile che ha fatto molto parlare di sé negli anni. Fondendo i due punti di vista, quello occidentale e quello dei migranti, è riuscito nell'intento di evitare uno sguardo pietistico sul fenomeno trasmettendo alla storia narrata un respiro a tratti poetico. L'Europa attraversata è diversa da quella a cui ci abitua la narrazione quotidiana dei media: è quella solidale di chi apre le porte e ospita, di chi offre accoglienza ed ascolto. Si è parlato di “nuova estetica della frontiera” per questa storia che ci racconta un sogno, almeno in parte realizzato, fino al finale onirico e al canto della sposa sulla piazza deserta nella notte di Stoccolma. Una storia che, anziché, mostrare pietismo nei confronti delle vittime e fare facile retorica sugli altri, ci propone la possibilità di un noi allargato. Ma la leggerezza che i registi ci regalano non è stata facile da raggiungere: si è trattato di un progetto rischioso. E da molti punti di vista.
Pur essendo stati “contrabbandieri umanitari”, si sono assunti un reale rischio legale: l'Articolo 12, comma 1 e 3 del testo unico sull'immigrazione prevede infatti che, considerando tutte le aggravanti del caso, rischiassero fino a 15 anni di carcere e una multa di 15.000 euro per ogni persona trasportata. Eppure sono stati ricevuti al Quirinale in occasione dei David di Donatello e nel 2015, grazie all'eurodeputata Cécile Kyenge, hanno proiettato Io sto con la sposa al Parlamento Europeo a Bruxelles. L’interessamento di tante persone, la raccolta di quasi 100.000 euro attraverso il crowdfunding (che contribuì a finanziare montaggio e post-produzione in tempi record per il Festival del Cinema di Venezia), il sostegno di molti legali anche appartenenti a Magistratura Democratica: tutti questi fattori dimostrano le dimensioni della rete di solidarietà nata per difendere la sposa. E questo “piccolo film” è diventato in breve tempo un caso per i molti riconoscimenti ricevuti, sia in Italia che all’estero, dove è stato selezionato per importanti festival e ha ricevuto diversi premi. Tra gli oltre trenta Paesi in cui è stato proiettato non pochi appartengono al mondo arabo e l’accoglienza è sempre stata molto positiva: segno che la storia raccontata è in grado di stimolare l’ascolto e il dialogo. Nonostante ciò non dovremmo dimenticare che Gabriele Del Grande, uno dei tre registi, ha continuato a fare il giornalista e, per le sue inchieste, nel 2017 è stato arrestato in Turchia e rilasciato solo a seguito di una campagna di mobilitazione e dell'interessamento del Ministero degli Esteri.
“Se noi stessi, da cittadini europei, ci siamo trasformati per una settimana in contrabbandieri umanitari, è proprio per dire che l’unico modo per fermare le stragi in mare è dare un’alternativa legale di mobilità a quelle persone.(…) Siamo fin troppo realistici per credere che qualche partito possa prendere sul serio le nostre proposte, al di là della vicinanza di singoli deputati più sensibili e preparati. La verità è che i tempi per la libera circolazione non sono ancora maturi. Ed è per questo che il nostro vero lavoro politico continuiamo a farlo nel cinema, nei teatri, nelle piazze e soprattutto con i ragazzi nelle scuole e nelle università. Cercando di tenere in vita un racconto diverso, sovvertito, della frontiera, del Mediterraneo, del viaggio, di noi.” (da Storia di un matrimonio, a cura di G. Del Grande, Real Cinema Feltrinelli)

Carla Babini