A Dog Called Money: sulle tracce di PJ Harvey


…a wisp of humanity celebrating the small things” (Patti Smith)


A Dog Called Money, inizialmente previsto in uscita nelle sale italiane in queste settimane, a causa dell’emergenza sanitaria verrà invece presentato agli spettatori di tutti gli “schermi immaginari” dal 21 maggio, col patrocinio di Amnesty International Italia. Il documentario è il risultato del lungo e straordinario processo creativo che ha portato all’ultimo album di PJ Harvey, The Hope Six Demolition Project, ed è diretto da Seamus Murphy.

La cantante, artista e poetessa ha accompagnato il fotografo e film-maker in alcuni dei suoi viaggi in Afghanistan, Kosovo e tra i quartieri più degradati di Washington D.C. Mentre lui cercava scatti per i suoi reportage, lei trovava le parole per i suoi nuovi testi e, di ritorno a Londra, le parole sono diventate poesie (pubblicate nel volume The Hollow of the Hand) e poi brani di un album, registrato alla Somerset House durante un happening senza precedenti. In uno studio costruito ad hoc nel basement del celebre centro culturale londinese, il pubblico ha potuto assistere, attraverso un vetro semi-riflettente, al processo di produzione dell’album, durato 5 settimane. Murphy documenta questo esperimento con la stessa, trattenuta, obiettività con cui ha osservato Polly Jean Harvey durante il viaggio, resa possibile dal dialogo intimo ed ininterrotto tra parole, musica ed immagini. Il suo procedere per riduzione, catturando l’immediatezza dei gesti e degli incontri, testimonia con forza l’umanità sottesa al processo creativo che porta alla nascita dei testi, al loro rapporto con la musica, fino alla trasformazione in immagini per il cinema.

È evidente che la musica non è il sottofondo, ma l’essenza stessa della narrazione: A Dog Called Money indaga il rapporto sempre più stringente tra Harvey e la realtà, in questo album così “politico”. Durante il viaggio la vediamo attraversare le macerie delle case del Kosovo, camminare tra gli edifici distrutti dal conflitto afghano, immergersi nei quartieri più degradati di Washington, osserviamo stando al suo fianco le folle di migranti disperati al confine tra Grecia e Macedonia, ma soprattutto assistiamo agli incontri, intensi e mai giudicanti con le persone in quei luoghi. In una delle sequenze più toccanti è ripresa un’anziana kosovara che tiene in mano una catenella a cui sono appese molte chiavi, quelle delle case dei suoi vicini, fuggiti o forse morti in guerra.

Da quelle immagini prende spunto uno dei brani più intimisti e duri dell’album, Chain of Keys:

The woman's old

The woman's old

The woman's old and dressed in black

She keeps her hands

She keeps her hands behind her back

Imagine what

Imagine what her eyes have seen

We ask but she

We ask but she won't let us in…

È sempre la voce di PJ a farci da guida, quando duetta in una improvvisazione insieme a musicisti afghani, quando si mescola a quella del muezzin a Kabul, a quelle dei sufi e di un coro gospel a Washington nella straordinaria The Community of Hope

 


In effetti, a distanza di mesi (ho visto il documentario a fine ottobre durante la Viennale) le immagini più cupe che riaffiorano alla memoria sono quelle di Washington DC.  Non è certamente un caso che il titolo dell’album su cui A Dog Called Money è incentrato faccia riferimento al programma statale statunitense HOPE VI, che consiste nella demolizione di edilizia popolare in zone ad alto tasso di criminalità per fare posto a costruzioni riqualificate. La gentrification, qui come altrove (Londra ad esempio) ha come conseguenza diretta che molti dei vecchi residenti siano costretti ad abbandonare gli alloggi perché non riescono più a sopportare il livello delle spese necessarie per rimanere. Questo processo porta necessariamente alla cosiddetta “pulizia sociale”, allontanando dal proprio contesto abitativo masse di popolazione e snaturando contemporaneamente interi quartieri. 

E proprio a Washington PJ si confronta in modo diretto col tema del razzismo: “È un odio così grande quello dei bianchi che mi chiedo se ogni volta che guardano un albero non vedano un nero che pende dai suoi rami”, scrive sul diario che la accompagna per tutto il viaggio, sintetizzando in questo modo le impressioni e comunicando direttamente al pubblico in modo empatico.

Seamus Murphy, rispondendo alle domande in un interessante Q&A dopo la proiezione viennese, ha chiarito diversi aspetti del loro lavoro comune. Ad esempio perché, dopo luoghi toccati da guerre e distruzione quali l’Afghanistan o il Kosovo, avessero raggiunto anche la capitale degli Stati Uniti. Washington è in realtà il luogo da cui trae origine il potere occidentale e nel quale viene deciso il destino dei conflitti internazionali. È altresì un’area non esente da grosse tensioni interne in cui, per altro, la speranza di cambiamento pare minore rispetto ad altrove. 

Eppure ci sono piccole comunità di giovani minoranze che stanno facendo esperienza di progetti straordinari, di cui vale la pena dar conto. Murphy ha chiarito come il progetto fosse improntato ad un costante learning by doing: niente era stato pianificato in precedenza,  la loro intenzione era semplicemente quella di esplorare e scoprire, consapevoli che il risultato potesse essere tutt’altro che prevedibile. “Working with PJ Harvey, I saw places differently. She brought a new angle”: con queste parole il regista ha concluso il suo intervento. 

Una nuova prospettiva è il dono di questo lavoro, anche per noi spettatori: dare voce, dolente e vitale, all’umanità, agli orrori e alle piccole speranze che la accompagnano. 

Ovunque. 

Ancora.

Carla Babini